Lite temeraria per chi ripropone il ricorso con gli stessi profili di inammissibilità
Va condannato per lite temeraria il condomino moroso che ripropone lo stesso ricorso cautelare urgente ex art. 700 c.p.c., finalizzato ad ottenere il riallaccio al servizio idrico, reiterando i medesimi profili di inammissibilità del primo ricorso relativi alla mancata indicazione degli estremi della causa di merito, quali l'oggetto ed il petitum della controversia, nonché la natura dell'azione che intende esercitare.
È quanto deciso dal Tribunale di Modena che, con ordinanza del 5 giugno 2015, ha rigettato per la seconda volta il ricorso cautelare urgente proposto dal condomino moroso per ottenere il riallaccio dell'acqua.
Il primo ricorso era stato respinto perché, tra l'altro, non conteneva la precisa indicazione degli estremi della causa di merito. Difettava, cioè, il presupposto della strumentalità, in ordine al quale la domanda cautelare deve essere, appunto, “strumentale” all'azione che s'intende esercitare nella successiva fase di merito a cognizione ordinaria.
Nel riproporre l'istanza il condomino è incorso nello stesso difetto di inammissibilità. Secondo il tribunale, infatti, “l'identificazione della causa di merito instauranda non viene espressamente effettuata ed è, nel caso di specie, di incerta individuazione e nel ricorso non sono illustrati l'oggetto ed il petitum della controversia di merito che dovrebbe essere instaurata, non essendo nemmeno indicata la natura dell'azione che si intende esercitare in sede di cognizione ordinaria – in ordine alla quale il richiesto strumento cautelare deve essere connesso da un nesso di strumentalità – ed è indicato il solo risultato pratico preteso (ripristino dell'erogazione)”.
Il ricorso va dunque nuovamente respinto. Non solo. Secondo il giudice emiliano la ripetizione di un ricorso affetto dai medesimi difetti di presupposti di inammissibilità di un precedente specifico è sanzionabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c., applicabile anche ai provvedimenti cautelari (Cass. civ. 30.7.2010; Trib. Verona 21.3.2011; Trib. Reggio Emilia, 18.4.2012; Trib. Milano 13.6.2012).Il ricorrente va dunque condannato per aver instaurato la controversia giudiziaria in modo temerario, in particolare ai sensi del terzo comma dell'art. 96 del codice di rito, ai sensi del quale “il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
L'ordinanza precisa lanatura della sanzione per lite temeraria: si tratta di “una forma di danno punitivo per scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso”. Per l'erogazione della sanzione non è necessaria la sussistenza di un danno di controparte, mentre per quanto riguarda l'elemento soggettivo, va condivisa l'interpretazione più rigorosa che richiede comunque la presenza del requisito – previsto espressamente soltanto nell'ipotesi di cui al primo comma dell'art. 96 – della malafede o della colpa grave, non essendo sufficiente invece la sola colpa lieve o, addirittura, la mera soccombenza.
Attenzionea come s'imposta il ricorso ex art. 700 c.p.c. La tutela cautelare atipica d'urgenza, infatti, si fonda sulla sussistenza di quattro presupposti. Oltre alla strumentalità, occorrono infatti: 1) il fumus boni iuris, ossia delle ragioni spiegate dal ricorrente, che devono indurre il giudice ad effettuare una positiva valutazione prognostica di fondatezza del diritto azionato; 2) ilpericulum in mora, ossia la minaccia di un pregiudizio imminente ed irreparabile gravante sul ricorrente qualora si attendesse il tempo necessario per decidere la controversa mediante il procedimento ordinario di merito; 3) la residualità, per cui si può fare affidamento all'art. 700 esclusivamente in assenza di altre azioni cautelari tipiche esperibili dall'interessato.
Proprio la residualità, peraltro, rappresenta nel caso di specie un altro motivo di inammissibilità del ricorso. Inoltre, il ricorrente non aveva mai negato di essere moroso nei pagamenti dei contributi condominiali per oltre un semestre, circostanza che, ai sensi dell'art. 63, comma 3, disp, att. c.c., attribuisce all'amministratore del condominio – in via di autotutela e senza ricorrere previamente al giudice – il potere di sospendere al moroso l'utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. “Dopo la modifica normativa che ha eliminato la previsione “ove il regolamento lo consente”– osserva il Tribunale -l'esercizio di tale potere configura un potere-dovere dell'amministratore condominiale il cui esercizio è legittimato ove, come nel caso di specie, la sospensione sia effettuata intervenendo esclusivamente sulle parti comuni dell'impianto, senza incidere sulle parti di proprietà esclusiva dal condomino moroso”.
Occorre aggiungere che, soprattutto dopo la legge di riforma, il ricorso cautelare urgente può rappresentare un'efficace strumento di tutela per molti condomini in difficoltà con i pagamenti. E molti giudici sono propensi ad accogliere le istanze, soprattutto quando la sospensione comporta l'esclusione da “servizi essenziali”, al fine di evitare la lesione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, connessi all'uso dell'abitazione.
Nel caso in esame, tuttavia, è carente anche tale profilo di tutela in quanto non sussiste alcuna posizione di uso legittimo dell'abitazione, essendo il ricorrente un occupante senza titolo dell'immobile, del quale aveva dapprima perso, con il pignoramento, il possesso, e poi, con la qualifica di custode, la detenzione semplice. Dunque, nessun bilanciamento di interessi e diritto può essere compiuto dal giudice nel caso concreto.