Il caso I comproprietari di unità immobiliari agivano in giudizio perché fosse accertato l'acquisto per usucapione della servitù di passaggio pedonale a carico del fondo di proprietà della convenuta, dichiarando un ultraventennale utilizzo del passaggio pedonale, specificamente, attraverso uno stradello congiungente la via pubblica con la corte comune ed insistente sulla proprietà della parte convenuta.
Quest'ultima, nel richiedere il rigetto delle parti attoree, eccepiva che il passaggio era esercitato saltuariamente e solo per mera tolleranza; in via riconvenzionale, chiedeva altresì che, se accertata la servitù di passaggio, fosse dichiarata la legittimità dei cancelli apposti. Il giudice di primo grado – espletata altresì CTU – respingeva le pretese degli attori «in assenza di prova di opere visibili e permanenti di esercizio del passaggio per l'intero ventennio di possesso necessario ad usucapire». Proponevano dunque appello gli attori, lamentando una non corretta valutazione da parte del Tribunale, da un lato, delle risultanze istruttorie – che, tutte, avevano confermato «il pacifico, pubblico e continuato, oltreché ventennale utilizzo del passaggio pedonale da parte degli appellanti, circostanza confessoriamente confermata anche dalla convenuta in sede di interrogatorio formale»; dall'altro, degli elementi confermativi del requisito dell'apparenza della servitù – l'esistenza dello stradello insistente sulla proprietà, il tracciato con pavimentazione cementizia, la successiva apposizione dei cancelli da parte della convenuta. Breve panoramica sulle servitù di passaggio
La decisione La Corte d'Appello di Venezia, in totale riforma della sentenza censurata, ha accertato e dichiarato l'intervenuto acquisto per usucapione del diritto di servitù in questione, giudicando ampiamente dimostrato l'esercizio ultravventennale del passaggio pedonale; il giudice del gravame ha infatti ritenuto che il requisito dell'apparenza (esistenza dello stradello e sua funzionale destinazione a dare accesso attraverso il fondo servente a quelli dominanti) sia emerso in maniera inequivocabile, oltre che dallo stato dei luoghi, dalla stessa documentazione allegata alla CTU ed acquisita presso la locale P.A.
La Corte ha altresì escluso che il passaggio sullo stradello fosse stato consentito per mera tolleranza: premesso che «in base al principio fissato dall'art. 2697 cod. civ., una volta dimostrata, da parte di coloro che assumono di essere stati spogliati del possesso di una servitù di passaggio, la sussistenza del possesso, incombe a coloro che contestano il fatto del possesso dimostrare la sussistenza della mera tolleranza (Cass. n. 1240 del 29.1.2001; Cass. n. 5772 del 23.3.2004)», il Collegio veneziano ha ritenuto che, nel caso di specie, detta prova non sia stata fornita dalla parte convenuta; al contrario «il passaggio praticato dai vicini per lunghissimo periodo di tempo (quanto meno venti anni), induce a ritenere che lo stesso sia avvenuto non per ragioni di tolleranza». Richiamando un pacifico indirizzo interpretativo, il giudice ha dunque ribadito che «gli atti di tolleranza, traendo origine dall'altrui condiscendenza, da rapporti di familiarità, amicizia o buon vicinato, integrano un elemento di transitorietà e di saltuarietà, per cui in mancanza di una prova contraria specifica deve escludersi che sia stato esercitato per tolleranza il passaggio sul fondo altrui, praticato per parecchi anni (Cass. n. 1015 del 8.2.1996). […] laddove si assuma che il passaggio in questione sia sporadico (tratto comunque contestato; in sede di CTU vi è stato contrasto in ordine al fatto che si fosse in presenza di “seconde case”), va preliminarmente osservato che in tema di servitù di passaggio la sporadicità del relativo esercizio non denota che questo si verifichi per mera tolleranza, allorquando sia accertato che il passaggio corrisponda ad un interesse che non richiede una frequente utilizzazione del transito (Cass. n. 2598 del 25.3.1997).
Ed allora – conclude la Corte d'appello – va ulteriormente rilevato che in tema di servitù discontinua di passaggio, nell'indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se l'attività corrispondente all'esercizio della servitù sia stata compiuta con l'altrui tolleranza e quindi sia inidonea all'acquisto del possesso – posto che detta tolleranza non può desumersi dalla frequenza con cui viene utilizzata la cosa altrui – la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell'esclusione di detta situazione di accondiscendenza da parte del “dominus”, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia e buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo (Cass. n. 8498 del 3.8.1995)».
Il requisito dell'apparenza Il codice civile richiede dunque all'art. 1061 che, per tutto il periodo necessario al compimento dell'usucapione del diritto di servitù, vi siano opere visibili e destinate al loro esercizio, e tanto la dottrina che la giurisprudenza manifestano al riguardo un concorde e consolidato orientamento; come del resto ribadito anche dalla sentenza in commento, «il requisito dell'apparenza della servitù, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia (art. 1061 c.c.) si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rilevanti in modo non equivoco l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, in modo da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile. Ne consegue che non è al riguardo sufficiente l'esistenza di una strada o di un percorso idonei allo scopo, essenziale viceversa essendo che essi mostrino di essere stati posti in essere al preciso fine di dare accesso attraverso il fondo preteso servente a quello preteso dominante e, pertanto, un quid pluris che dimostri la loro specifica destinazione all'esercizio della servitù» (Cass. civ., 10 marzo 2011, n. 5733 e le pronunce ivi richiamate: Cass., 11 febbraio 2009, n. 3389; Cass., 10 luglio 2007, n. 15447; Cass., 28 settembre 2006, n. 21087; Cass., 17 febbraio 2004, n. 2994). E, ancora: «Non è la “entità” delle opere che rileva ma le opere in quanto segno inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù. Ed è segno oggettivo che non si può mutuare da una prova per testimoni. A norma dell'art. 1061 c.c. le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione (o per destinazione del padre di famiglia) e non apparenti sono le servitù quando non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro servizio. È necessario, per il requisito dell'apparenza, che esista una situazione di fatto la quale “inequivocabilmente” riveli per struttura e consistenza l'onere gravante su un fondo a vantaggio di un altro ancorché l'apparenza non debba estendersi in ogni caso all'opera nel suo complesso (cfr. tra le tante, Cass. 23.1.1959 n. 181; 3.4.1959 n. 998; 6.8.1962 n. 2398; 10.2.1984 n. 1028; 24.4.1990 n. 3441)» (Cass. civ., 7 agosto 1992, n. 9371).
Usucapione e atti di tolleranza Se dal lato dell'usucapente, come per tutti i possessori, devono poi potersi ravvisare i tratti distintivi dell'animus possidendi , ossia la volontà di esercitare sul bene, nel proprio interesse, i poteri corrispondenti ad un preciso diritto reale di godimento, dal lato del titolare del diritto oggetto del possesso, occorre, in primo luogo, che questi sia a conoscenza, o in condizione di essere a conoscenza, del possesso altrui; e conta altresì che non si tratti di un comportamento riconducibile a mera tolleranza (art. 1144 c.c.): «Ai fini della configurabilità del possesso ad usucapionem, occorre la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto che dimostri inequivocabilmente l'intenzione di esercitare il potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena e, quindi, una signoria sulla res che permanga per tutto il tempo indispensabile per usucapire, senza interruzione, sia per quanto riguarda l'animus che il corpus. Altresì, è necessario che la signoria non sia dovuta a mera tolleranza, che è da ravvisarsi tutte le volte che il godimento della res, lungi dal rilevare l'intenzione del soggetto di svolgere un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale, tragga origine da spirito di condiscendenza o da ragioni di amicizia o di buon vicinato» (Trib. Napoli, 24 gennaio 2014 n. 1154). La tolleranza – che, come indicato, può avere varie cause (rapporti di parentela, amicizia, vicinato, cortesia, condiscendenza) – fa infatti presumere che gli atti tollerati siano posti in essere da un soggetto che non vanta alcun diritto, né obbligatorio, né reale sul bene: «gli atti di tolleranza, che secondo l'art. 1144 c.c., non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità […] (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone» (Cass. civ., 20 febbraio 2008 n. 4327).
(Usucapione, cosa succede se il proprietario contesta il possesso?