In materia di immissioni la norma di riferimento e' quella di cui all'art. 844 Cc, per il quale «il proprietario di un fondo non puo' impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilita' , avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi».
Cio' posto, il discrimine tra le immissioni consentite e quelle vietate - che, in quanto tali, devono cessare - e' dato dal concetto di tollerabilita' , atteso che quando queste non superano livelli di comune accettabilita' non possono essere impedite.
=> Immissioni intollerabili
Appare evidente che tale concetto rivesta carattere relativo, nel senso che si deve tener conto del caso concreto, ivi comprese le condizioni naturali e sociali dei luoghi, delle attivita' normalmente svolte, del sistema di vita e delle abitudini delle popolazioni e, con particolare riguardo alle immissioni sonore, occorre fare riferimento alla cosiddetta rumorosita' di fondo della zona, e cioe' a quel complesso di suoni di origine varia e spesso non identificabili, continui e caratteristici del luogo, sui quali s'innestano di volta in volta rumori piu' intensi prodotti da voci, veicoli, ecc..
Pertanto il superamento della normale tollerabilita' spesso e' demandato ad un accertamento tecnico ma, nondimeno, il giudice di merito, secondo il suo prudente apprezzamento e tenuto conto di tutte le circostanze sopra dette, nonchè dell'istruzione probatoria espletata, puo' determinare il superamento, o meno, della normale tollerabilita' e, pertanto, ordinare la cessazione delle immissioni.
Tuttavia il superamento della normale tollerabilita' , una volta che e' stato giudizialmente accertato, puo' anche comportare dei danni in favore del soggetto esposto alle immissioni, che possono essere di natura patrimoniale ma anche e, soprattutto, di natura fisica.
Cosa'¬ come nel caso sottoposto all'attenzione della Corte di Cassazione e definito con sentenza n. 2668, depositata in data 5 Febbraio 2018.
Il giudice di primo grado, dopo aver accertato che le immissioni provenienti dall'immobile erano risultate intollerabili a seguito dell'apertura di un locale sottostante adibito a PUB, in accoglimento della domanda attorea condannava il convenuto a risarcire il danno biologico cagionato, oltre al danno morale ed a quello patrimoniale, in conseguenza delle spese mediche sostenute.
In appello la decisione veniva parzialmente riformata con la riduzione del risarcimento liquidato, in considerazione del fatto che la Corte d'Appello di Milano ha ritenuto l'insussistenza di un danno biologico, non risultandone provato - in base alla documentazione in atti - «l'an e non essendo stato adeguatamente motivata la decisione in ordine al quantum».
Sul ricorso per cassazione proposto dai danneggiati la Suprema Corte rigetta lo stesso e li condanna al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Nelle motivazioni della sentenza, tuttavia, la Corte di Cassazione non manca di rimproverare alla corte di merito di non aver tenuto in alcuna considerazione la richiesta di Consulenza Tecnica d'ufficio (CTU), nonostante il rilievo non sia stato sollevato dai ricorrenti.
Il giudice di legittimita' , infatti, rileva come la Corte d'Appello abbia escluso il risarcimento del danno biologico in relazione alla mancata prova dei danni alla salute, non ritenendo idonea a tal uopo la certificazione medica prodotta in giudizio.
=> Danno da inquinamento acustico. Gli inquilini devono dimostrare il superamento dei limiti differenziali
A tal proposito pero' evidenzia come «i ricorrenti avevano espressamente chiesto l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio medico-legale proprio per dimostrare l'esistenza, tra gli altri, di danni biologici causalmente riconducibili alle immissioni, sicchè il rigetto dell'istanza di ammissione della c.t.u. da parte del giudice appare immotivato».
Ed invero, «nella giurisprudenza di questa Corte e' consolidato l'orientamento secondo cui la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, il quale, tuttavia, ha il dovere di motivare adeguatamente il rigetto della istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dando adeguata dimostrazione di potere risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare (v. Cass. civ. Sez. I, Sent., 01-09-2015, n. 17399; Cass.n. 72/2011, n. 88/2004, n. 10/2002, n. 15136/2000).».
Tale omissione, specie in controversie «che richiedono per il loro contenuto che si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso, costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza (v. Cass. n. 4927/2004).».
Tuttavia, come detto, i ricorrenti non hanno eccepito tale vizio motivazionale pertanto la Suprema Corte, pur rilevando la predetta anomalia, non ha potuto disporre sul punto.
Infatti, il giudice di secondo grado ha escluso la sussistenza di un danno biologico, non risultandone provato, in base alla documentazione in atti, e non essendo stato adeguatamente motivata la decisione in ordine al quantum.
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