Nel caso in cui un condomino si appropri di una parte comune, l'azione per ottenerne la restituzione in favore della collettività condominiale può essere intrapresa dall'amministratore, sulla base di una deliberazione approvata a maggioranza, oppure l'azione necessita del mandato da parte di tutti i comproprietari?
Questa, in sostanza, la domanda cui è stata chiamata a fornire soluzione la Suprema Corte di Cassazione; la sentenza n. 20816 del 15 ottobre 2015 merita attenzione in quanto la materia della legittimazione processuale dell'amministratore condominiale è sempre soggetta ad incertezze e repentini cambi di orientamento.
La pronuncia in esame, fortuna nostra, pare inserirsi nel solco tracciato dalle Sezioni Unite con le arcinote e dibattutissime sentenze nn. 18331-2 del 2010.
la legittimazione passiva a stare in giudizio dell'amministratore di condominio.
Molto dipende dal tipo di domanda proposta: mai come in questi casi l'uso delle parole può fare la differenza. Vediamo perché.
Il caso è di quelli di cui si sente parlare di tanto in tanto: una persona acquista dei locali sottotetto in condominio e inizia dei lavori di restauro. La ristrutturazione, secondo il condominio, è un po' troppo invasiva, nel senso che il neo condomino sempre secondo la compagine, si sarebbe appropriato di una parte comune, inglobandola nella sua proprietà.
A quel punto l'assemblea condominiale decide di promuovere una lite per avere indietro le parti dell'edificio che ritiene comuni. Il condomino si oppone e tra le varie cose contesta la legittimazione del condominio a promuovere quel genere di giudizio. A suo modo di vedere, poiché si tratta di una causa afferente il diritto di proprietà, non bastava una deliberazione assembleare, ma sarebbe stata necessaria la partecipazione di tutti i condòmini, se del caso anche attraverso mandato singolo all'amministratore. Questa eccezione processuale non trovava accoglimento nei giudizi di merito; da qui il ricorso in Cassazione.
I giudici di legittimità hanno ritenuto corrette le conclusioni sull'argomento alle quali era giunta la Corte d'appello con la sentenza impugnata.
Motivo? Si legge in sentenza che il condominio ha “agito per difendere il mantenimento della disponibilità materiale di parte dell'area sottotetto, inglobata nella proprietà esclusiva dalla (...), con i lavori di ristrutturazione delle soffitte, dalla stessa acquistate dalla (…). Per proporre tale azione, da definirsi quindi di accertamento dei diritti dominicali, non era necessario il mandato di tutti i condomini, potendo l'amministratore agire ex art. 1130 c.c., n. 4, e art. 1131 c.c. (v. Cass. Sez Unite n. 18331 del 2011 e più di recente, Cass. n. 28141 del 2013)”.
A ben vedere in casi del genere non è nemmeno necessaria la deliberazione assembleare ad agire in giudizio. La ragione di questa affermazione va trovata nella lettura coordinata degli artt. 1130 n.4 e 1131 c.c. a mente dei quali rientra nelle prerogative dell'amministratore che non necessitano del preventivo consenso assembleare ogni azione finalizzata a compiere atti conservativi.
=> Con la delibera della maggioranza l'amministratore può agire per rivendicare la proprietà di una parte comune
=> I poteri dell'amministratore e quelli dell'assemblea rispetto alle controversie riguardanti beni comuni